"C’era ’na vota, cu’ami si dicìssa…”
Era così che, nel nostro paese, si dava inizio a una favola, "na fravula". Non so se anche nelle altre comunità calabresi si usasse la stessa espressione, ma da noi bastava pronunciarla per compiere una piccola magia: riunire tutta la famiglia, dai bambini più piccoli ai nonni. Succedeva quasi sempre di sera, all’imbrunire, quando il buio calava sulle case e fuori non c’era più motivo di trattenersi. Le strade si svuotavano e la vita si spostava dentro, attorno a quel piccolo mondo domestico che prendeva forma intorno al braciere, “a vrascera” : un semplice contenitore di metallo pieno di carbone ardente, nato per scaldare le stanze lontane dal focolare, ma che finiva per scaldare molto di più i cuori che le mani.
In quelle sere fredde, soprattutto quando il maltempo imperversava e i tuoni si facevano sentire forte, interrompendo il silenzio con colpi improvvisi, ritrovarsi attorno alla brace diventava un rito. Ogni tuono era una pausa, un istante in cui tutti restavamo fermi, vicini, quasi a cercare protezione l’uno nell’altro, sì, perché spesso il lampo provocava l’interruzione dell’energia elettrica e si resta totalmente al buio, la luce si produceva con le fiamma della legna o si accendevano le candele di cera che allora non mancavano nelle case. E mentre le braci crepitavano piano, si preparavano i ceci da arrostire nel coppo: un profumo semplice, antico, che già da solo bastava a far sentire che una storia stava per cominciare.
Poi arrivava la frase che apriva le porte al meraviglioso: “C’era ’na vota cu’ami si dicìssa…” E insieme alla frase, iniziava anche il rito di mangiare quei ceci caldi, come oggi si mangerebbe il pop corn al cinema. In fondo, era proprio questo: il nostro piccolo cinema di casa, prima ancora che le sale cinematografiche arrivassero nei paesi e cambiassero quelle abitudini.
Le favole duravano poco. Ma non quelle di mio padre. Lui le faceva durare finché non ci addormentavamo tutti, uno dopo l’altro, come candele che si spengono piano. Era il suo modo dolce e paziente di accompagnarci nella notte. Mio padre non raccontava soltanto: interpretava.
Con la sua voce, la mimica, i gesti, riusciva a farci vivere ogni scena come se fossimo dentro un film. Non si limitava a narrare la trama: ce la mostrava. E noi la vedevamo davvero. Ma c’era ancora di più. La favola doveva sempre terminare con quelle storie che un po’ ci inquietavano, le famose “chiri chi fannu spagnàri”. Erano racconti che, dicevano, erano accaduti davvero, di anime del purgatorio che si ripresentavano. E noi bambini, anche i più piccoli, li aspettavamo con un misto di timore e desiderio, sapendo che ci avrebbero fatto stringere un po’ di più gli uni agli altri, soprattutto quando si rimaneva letteralmente a lume di candela, nessuno andava a letto da solo, si decideva insieme, come una piccola squadra nella notte.
E così, attorno al braciere o al focolare, ci lasciavamo prendere da quelle paure buone, quelle che alla fine ti consumano piano piano e ti lasciano cadere nel sonno. Nelle famiglie numerose, la favola era un rituale. E soprattutto, era il più dolce dei sonniferi.

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