Cos’era un tempo la “zzita”? La “zzita”, da zitella, fidanzata di un ragazzo (zzitu), ma il termine al femminile significava anche il matrimonio, con tutti i preparativi e la festa, un momento di pura magia e nello stesso tempo qualcosa di molto profondo: non era solo un rito, ma una celebrazione vibrante della vita stessa. Ogni sorriso, ogni lacrima di gioia, ogni abbraccio sincero raccontava una storia di speranza e di amore, tessendo insieme i legami nella propria comunità che, pur nella sua povertà, brillava di una ricchezza incommensurabile.
Ricordo benissimo quei momenti, che erano in uso fino a tutti gli anni '80 e all'inizio degli anni '90. Per quel giorno speciale, non c’erano solo due anime che si univano in matrimonio, ma un intero paese festeggiava l’amore, la speranza e il futuro. In ogni fase, ogni sguardo, ogni parola, ogni gesto era intriso di un significato profondo, fino al ricordo indelebile che si sarebbe scolpito nei cuori di tutti presenti agli eventi.
Dopo il primo "Sì" un ragazzo e una ragazza diventavano “zziti”; poi doveva esserci l’approvazione dei genitori, altrimenti si trovava un escamotage, cioè la cosiddetta “fujitina”, “sin d’i hannu fujuti”, mediante la quale si scappava da casa, magari verso un altro paese, si stava insieme e si consumava tutto al fine di ottenere l’approvazione dei genitori, in modo da poter celebrare subito il matrimonio; altrimenti, era scandalo, era “brigogna”.
Ma ritorniamo alla prima fase: per ottenere l’accettazione pacifica dei genitori doveva avvenire il "fidanzamento in casa", che consisteva nello scambio del primo anello offerto dai genitori, ovvero nell'accettazione delle famiglie della futura unione matrimoniale, seguita poi da una festa in grande nella casa della “zzita”.
Il coinvolgimento delle famiglie etichettava, da quel momento, i giovani come "ziti". Oggi potrebbe sembrare molto strano, ma questa antica tradizione, ormai del tutto in disuso, rappresentava la contrattazione morale per il futuro matrimonio, firmata dai genitori e con l'approvazione degli interi nuclei familiari, che concludevano la prima fase con "hannu cunghjiudùtu": era un’accettazione, ma non una promessa. La promessa vera e propria si faceva quando i ragazzi si amalgamavano fortemente e si erano ben conosciuti per dichiararsi ufficialmente mediante il cosiddetto "giuramentu". Un altro sigillo veniva impresso dal compare d'anello, "a cummara e u cumpari", due figure importanti per la coppia. Oltre alla consegna dell'anello, rivestivano un ruolo fondamentale, su cui veniva riposta tutta la fiducia; erano anche il padrino e la madrina del primo genito. Durante il "giuramentu", le due figure erano accanto agli "ziti" e insieme si recavano in municipio per aprire la strada al matrimonio. Era la giornata più importante per i fidanzati, che si svolgeva, come da tradizione, nella casa della sposa. Le famiglie erano diventate strette e legate tra loro da profonda stima e rispetto. A questo evento, l’invito era esteso anche oltre le famiglie, e tra "pastetti, liquore e amaru, biccherini e cugghjianddri" non mancava il primo banchetto matrimoniale con tutti i prodotti prelibati fatti in casa: "alivi, sazizzi, suppressati, vrascioli e pasta chjina”.
Poi arrivavano i giorni del matrimonio, “a zita” si "maritava" e u "zitu" si "nzurava". Una settimana prima del matrimonio, le mamme dei ragazzi avevano ruoli importanti: “paravanu a casa”, praticamente arredavano e fornivano tutto ciò che serviva per la nuova casa, soprattutto “l’esposizione del corredo”, sotto il rigido controllo della suocera, al fine di verificare la giusta quantità di dote, che in passato pare fosse anche pattuita.
Si preparava la camera nuziale, che tutti i parenti erano chiamati a visitare; ognuno di loro concedeva offerte in denaro per augurare ricchezza e prosperità alla nuova famiglia. Durante la notte non era esclusa la “serenata” all’innamorata, durante la quale si suonavano canti di un tempo, brani e filastrocche popolari, che esprimevano i sentimenti amorosi. Per l’occasione partecipavano amici, conoscenti e vicini.
La mattina del matrimonio si presentava come un sogno che prendeva forma, avvolta in un'atmosfera di gioia e aspettativa. La sposa, incantevole nel suo abito bianco: il velo leggero danzava delicatamente al vento, mentre i pizzi e i merletti raccontavano storie di un amore di altri tempi. Lo sposo, elegante nel suo vestito scuro, la osservava con occhi pieni di ammirazione, pronto a prendere parte a quel sacramento che univa le loro vite per sempre. E’ arrivato il giorno “ U Jiuarnu”!
Il corteo nuziale si snodava per le strade, un paese in festa! Emozioni e sorrisi, quasi esclusivamente a piedi, come a voler rendere sacro ogni passo verso l’altare. La gente si affacciava dalle finestre e dai balconi, richiamata dalla magia del momento. “Sta passandu a zita!” si udiva in coro, come un canto di festa, mentre mani generose lanciavano riso e confetti, anche tante monetine, piccoli segni di buon augurio. I bambini, con gli occhi brillanti di meraviglia, si affannavano a raccoglierli, conservando nelle tasche i soldini e custodendo il resto per il giorno in cui si sarebbe celebrato un altro matrimonio. In quel giorno, la semplicità diventava bellezza, e la condivisione di momenti di pura felicità illuminava anche gli angoli più bui delle loro vite.
Dopo il rito sacro nelle splendide chiese addobbate per l’occasione, il corteo si dirigeva presso i locali per la consumazione della grande festa. Il cuore pulsava di vita e di tradizione. Lì, i tavoli imbanditi di leccornie davano vita al cosiddetto “zitaggiu”, Tra sapori e profumi si raccontava la storia di una comunità unita. Ogni piatto era un regalo, un gesto d'amore che si tramandava di generazione in generazione, un’occasione unica, un festival di emozioni che risuonava nel cuore di tutti, unendo anime diverse in un coro di risate e danze, in un abbraccio collettivo che superava ogni tutte le barriere.