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È IL TEMPO DEI PREPOTENTI, MA… C’È SEMPRE QUELLO DI DIO!

  Quando finirà il tempo dei prepotenti? Oggi sembra di essere al culmine. La domanda mi è sorta ascoltando le parole di un saggio uomo reli...

sabato 22 novembre 2025

È IL TEMPO DEI PREPOTENTI, MA… C’È SEMPRE QUELLO DI DIO!

 

Quando finirà il tempo dei prepotenti? Oggi sembra di essere al culmine. La domanda mi è sorta ascoltando le parole di un saggio uomo religioso, mentre scorrevo distrattamente i social. Da lì è nata una riflessione: viviamo davvero in un’epoca in cui la prepotenza sembra aver messo radici ovunque, dai vertici più alti della società fino alle sue basi. Dai poteri politici a quelli culturali, da quelli economici a quelli religiosi. Tutto vacilla, e spesso non ce ne accorgiamo neppure.

Sono tempi di sopraffazione. I prepotenti, coloro che impongono la propria volontà con arroganza, forza o inganno, non agiscono più nell’ombra. Un tempo si nascondevano dietro nobili parole o ruoli prestigiosi; oggi agiscono alla luce del sole, senza timore e senza vergogna. Basta accendere la televisione: parlano di politicamente corretto, ma poi sono i primi a insultare, con parolacce, manca solo la bestemmia, anche nella televisione di Stato. È come se ogni argine morale si stesse sciogliendo, come se nulla riuscisse più a frenare il dilagare dell’arroganza. Le tenebre avanzano e l’uomo, sempre più spesso, non sente più il bisogno di stare con Dio. Per molti, Dio non è più “comodo”, anche per tanti consacrati, in un mondo che corre verso l’individualismo assoluto. E allora viene spontaneo chiedersi: se ancora abbiamo un briciolo di fede, davvero non vediamo che forse ci stiamo avvicinando ai tempi dell’Apocalisse?

“I tempi dei prepotenti” sono qui, sotto i nostri occhi: tempi in cui dominano coloro che opprimono, che impongono, che governano con l’arroganza invece che con il servizio. Non ce ne accorgiamo; viviamo nella cecità. Forse è quella stessa cecità che la Bibbia indica quando afferma che alla fine dei tempi Dio manderà una potenza d’inganno a coloro che non hanno accolto la verità: non vedremo più il bene, la retta via e la giustizia. Guerre imposte dall’alto senza giustificazioni, poteri affidati a uomini non degni, che li esercitano come pedine, spesso in cambio di pochi soldi o,  per un piatto di lenticchie.

Assistiamo a un cambiamento culturale che spaventa: stiamo dissolvendo l’identità umana, le famiglie si indeboliscono e scompaiono, diritti conquistati con sacrificio vengono erosi e si intravede persino il rischio di nuove forme di schiavitù. Una volta, forse, le cose sembravano più giuste; oggi viviamo un’epoca in cui la prepotenza non si annida solo nel potere politico o economico, ma anche nella quotidianità: nelle relazioni, nel linguaggio, nelle scelte collettive. La corruzione si espande, la morale si perde.

Eppure, proprio quando i prepotenti dominano, è fondamentale non arrendersi. La storia insegna che ogni oscurità genera la sua luce, e che ogni arroganza trova prima o poi il limite della sua stessa cecità. Come ricordano le sagge riflessioni spirituali, esiste una sola via di salvezza e di resistenza autentica: il ritorno a Dio. Non un ritorno rituale, formale o di facciata, ma un ritorno del cuore, della coscienza, della verità. Perché solo una società che rimette Dio al centro può sperare di liberarsi davvero dalla prepotenza degli uomini.

giovedì 20 novembre 2025

ATTORNO AL FOCOLARE UN TEMPO TUTTE LE MAGIE, MA ANCHE MISTERO.... VI RACCONTO!

"C’era ’na vota, cu’ami si dicìssa…”

Era così che, nel nostro paese, si dava inizio a una favola, "na fravula". Non so se anche nelle altre comunità calabresi si usasse la stessa espressione, ma da noi bastava pronunciarla per compiere una piccola magia: riunire tutta la famiglia, dai bambini più piccoli ai nonni.  Succedeva quasi sempre di sera, all’imbrunire, quando il buio calava sulle case e fuori non c’era più motivo di trattenersi. Le strade si svuotavano e la vita si spostava dentro, attorno a quel piccolo mondo domestico che prendeva forma intorno al braciere, “a vrascera” : un semplice contenitore di metallo pieno di carbone ardente, nato per scaldare le stanze lontane dal focolare, ma che finiva per scaldare molto di più i cuori che le mani.

In quelle sere fredde, soprattutto quando il maltempo imperversava e i tuoni si facevano sentire forte, interrompendo il silenzio con colpi improvvisi, ritrovarsi attorno alla brace diventava un rito. Ogni tuono era una pausa, un istante in cui tutti restavamo fermi, vicini, quasi a cercare protezione l’uno nell’altro, sì, perché spesso il lampo provocava l’interruzione dell’energia elettrica e si resta totalmente al buio, la luce si produceva con le fiamma della legna o si accendevano le candele di cera che allora non mancavano nelle case. E mentre le braci crepitavano piano, si preparavano i ceci da arrostire nel coppo: un profumo semplice, antico, che già da solo bastava a far sentire che una storia stava per cominciare.

Poi arrivava la frase che apriva le porte al meraviglioso: “C’era ’na vota cu’ami si dicìssa…” E insieme alla frase, iniziava anche il rito di mangiare quei ceci caldi, come oggi si mangerebbe il pop corn al cinema. In fondo, era proprio questo: il nostro piccolo cinema di casa, prima ancora che le sale cinematografiche arrivassero nei paesi e cambiassero quelle abitudini.

Le favole duravano poco. Ma non quelle di mio padre. Lui le faceva durare finché non ci addormentavamo tutti, uno dopo l’altro, come candele che si spengono piano. Era il suo modo dolce e paziente di accompagnarci nella notte. Mio padre non raccontava soltanto: interpretava.

Con la sua voce, la mimica, i gesti, riusciva a farci vivere ogni scena come se fossimo dentro un film. Non si limitava a narrare la trama: ce la mostrava. E noi la vedevamo davvero. Ma c’era ancora di più. La favola doveva sempre terminare con quelle storie che un po’ ci inquietavano, le famose “chiri chi fannu spagnàri”. Erano racconti che, dicevano, erano accaduti davvero, di anime del purgatorio che si ripresentavano. E noi bambini, anche i più piccoli, li aspettavamo con un misto di timore e desiderio, sapendo che ci avrebbero fatto stringere un po’ di più gli uni agli altri, soprattutto quando si rimaneva letteralmente a lume di candela, nessuno andava a letto da solo, si decideva insieme, come una piccola squadra nella notte.

E così, attorno al braciere o al focolare, ci lasciavamo prendere da quelle paure buone, quelle che alla fine ti consumano piano piano e ti lasciano cadere nel sonno. Nelle famiglie numerose, la favola era un rituale. E soprattutto, era il più dolce dei sonniferi.

martedì 11 novembre 2025

Ecco perché il sindaco Voce non doveva ritirare le dimissioni

 


Mi rivolgo a quei cittadini e politici che amano definirsi “paladini della cultura”, custodi di un’etica laica o cristiana, ma che oggi tacciono. O peggio, sostengono l’indifendibile. Davvero dobbiamo accettare che un sindaco, in pieno Consiglio comunale, aggredisca verbalmente delle consigliere, urli contro chi lo contesta, in aula o tra il pubblico, e arrivi perfino a presentarsi sui luoghi di lavoro dei consiglieri per azzittirli?Con il ritiro delle dimissioni, Crotone e la sua classe politica sdoganano l’inaccettabile. Si afferma che l’arroganza è tollerabile, che la violenza verbale, e ormai anche quella fisica, può diventare linguaggio istituzionale. È un segnale devastante. Solo per questi comportamenti, Voce andava escluso dalla politica, non accolto con applausi e abbracci. Una città che non tutti si indignano. Nessuna presa di distanza da quei consiglieri che in un batter d'occhio hanno costruito una nuova maggioranza, nessuna voce dal mondo culturale. Anzi, lo si incoraggia a restare. Perché?

Davvero si crede che Voce sia l’unico in grado di risollevare la città? O dietro questa difesa compatta si nascondono interessi meno nobili? Il tradimento di uno spirito civico.  Il “civico” Voce ha tradito lo spirito con cui si era presentato ai crotonesi. Aveva giurato che non si sarebbe mai piegato ai partiti, tanto meno ai sostenitori dell’onorevole Sculco. Eppure oggi, dopo aver cambiato schieramento come si cambia giacca, si ritrova proprio con loro nella sua “nuova” maggioranza. Dal giorno dell’insediamento, il suo progetto politico si è sgretolato. Il movimento civico Tesoro Calabria, fondato da Tansi e portato come bandiera elettorale a Crotone , si è dissolto in pochi mesi, lasciando solo macerie e delusione. Non è forse questo un tradimento politico e morale verso chi aveva creduto in lui?

Perché Voce non doveva ritirare le dimissioni? Non per amore di Crotone, ma perché oggi incarna tutto ciò che la città non dovrebbe più essere. Un sindaco che cambia bandiera, che distrugge la propria creatura politica, che urla invece di dialogare, che confonde la guida con il comando… e che arriva persino alle mani con i suoi. Surreale è dire poco. C’è chi prova a giustificarlo: “Sì, non ha modi giusti ma ha fatto tanto per la città.” No. A Crotone non è stato fatto tanto. Sono state fatte solo omissioni, e ogni problema si è aggravato fino a diventare una ferita aperta. L’accordo con Eni: dal “nemico” all’alleato. In campagna elettorale, Voce si era presentato come il nemico giurato dell’Eni. Prometteva dignità, difesa del territorio, riscatto ambientale. Eppure, appena eletto, il primo atto concreto è stato un accordo proprio con l’Eni. Arrivano così 18 milioni di euro nelle casse comunali: ossigeno politico immediato, ma al prezzo di un benessere effimero, costruito su opere di poco conto, spettacoli e serate mentre la città continua a respirare veleno. Crotone balla, ma muore lentamente. E se qualcosa si è mosso sul fronte ambientale, non è stato grazie al sindaco, ma ai comitati cittadini, a chi lotta senza passerelle né ritorni d’immagine. Giammiglione, rigassificatore, parchi eolici: battaglie combattute da soli.

La discarica di Giammiglione è stata scongiurata grazie alle nostre battaglie e a una mozione che ho portato e fatto approvare in Consiglio comunale. Il rigassificatore è tornato al centro del dibattito solo grazie al nostro intervento, con una mozione che ha portato a un voto chiaro contro. E sui parchi eolici, questa amministrazione ha consentito l’ampliamento verso il Papaniciaro e perfino il progetto del parco offshore: anche lì, abbiamo dovuto batterci da soli per difendere il territorio e il mare crotonese. Bonifica e salute: una farsa ai danni dei cittadini. Sulla bonifica, l’Eni conduce una finta operazione, senza trasparenza né garanzie per la salute pubblica. Dopo cinque anni, nulla di concreto. Nel frattempo, i dati sanitari peggiorano, ma il sindaco tace, come se nulla stesse accadendo. Distretto energetico e rifiuti: silenzi e complicità. Negli ultimi anni, gli smaltimenti industriali sono aumentati. Abbiamo chiesto un Consiglio comunale aperto ai cittadini e ci siamo battuti, ma alla fine A2A ha ottenuto l’ampliamento, con la complicità della Provincia e del suo Presidente alleato. Nel silenzio generale, Crotone è diventata terra di scarico. Persino la mia proposta di legge per tutelare il territorio crotonese è stata bocciata da questa amministrazione. Un altro tradimento verso i cittadini. Emergenza idrica: un disastro annunciato.Reti idriche vecchie di quasi un secolo, quartieri senz’acqua e nessun piano concreto. Eppure una possibilità c’era: utilizzare parte dei fondi Eni per ripristinare i serbatoi di San Giorgio, indispensabili per garantire un approvvigionamento stabile. Una delibera lo prevedeva, ma la giunta Voce, la stessa che l'aveva deliberata, l’ha revocata. E la mozione che abbiamo presentato in Consiglio è stata bocciata dalla sua nuova maggioranza.

E allora mi chiedo: nostalgia di cosa, esattamente? Di un sindaco che promette e poi si smentisce? Di un’amministrazione che cancella invece di costruire? Forse sì: è la nostalgia di farsi del male da soli. Voce non doveva ritirare le dimissioni perché ha tradito i suoi principi, i suoi elettori e perfino se stesso. Crotone merita una guida, non un comandante. Merita coraggio, non convenienza. Merita verità, non compromessi.

domenica 2 novembre 2025

LA TRAGEDIA DI DONNA PEPPA E DEL FIGLIO PUGNALATO AL CUORE

 

Una storia accaduta un secolo fa 

Quella che racconto oggi è una storia vera, accaduta circa un secolo fa a Scandale (KR) dove fino a poco tempo fa ancora si tramanda un antico detto, usato come malaugurio verso chi si macchiava di cattive azioni:

«Chi vò murìri cuami u fijjiu i donna Peppa» – “Che tu possa morire come il figlio di donna Peppa”. 

Dietro queste parole, tramandate di generazione in generazione, si cela una tragedia tanto dolorosa quanto umana, che parla di miseria, orgoglio e soprattutto di un amore sconfinato: quello di una madre per il proprio figlio. La storia l’ho appena terminata di ricostruire questa sera, ma i nomi e i personaggi mi sono stati forniti con pazienza e passione dall’ex ufficiale dell’anagrafe di Scandale, Nicola Carvelli, mio cugino, che, attraverso documenti e testimonianze d’epoca, riuscì a risalire ai veri protagonisti di quel dramma, realmente vissuti agli inizi del Novecento.

Donna Peppa Contestabile, il cui nome completo era Giuseppina Contestabile, portava un titolo che un tempo apparteneva alle famiglie aristocratiche: quel “donna” che evocava nobiltà e rispetto. Ma di quella nobiltà lei non possedeva che il nome, perché la vita l’aveva privata di tutto. Non aveva marito, non aveva ricchezze, solo un figlio nato da padre sconosciuto. Quel figlio si chiamava Antonio Salvatore Contestabile. Essendo il padre ignoto, portava il cognome della madre. Per donna Peppa, Antonio era tutto ciò che aveva.

Antonio era un giovane alto, forte, dal carattere fiero. A Scandale incuteva timore e rispetto: pochi osavano contraddirlo. Forse per orgoglio, forse per gioventù, amava scherzare, talvolta anche con troppa durezza. E fu proprio questo a segnare il suo destino. Un giorno prese di mira un povero pastore del paese, un ragazzo umile ma dal cuore puro, innamorato di una giovane donna che, si diceva, non fosse indifferente nemmeno ad Antonio. Da lì nacque una rivalità silenziosa, un rancore che covava sotto la cenere.

Fu così che, in un pomeriggio d’estate, all’ingresso di Via Garibaldi a Scandale, tra la casa di Luigi De Biase e la vecchia bottega di "Micu i Carru", il destino tese la sua mano crudele. Antonio, con i soliti toni beffardi, schernì ancora una volta il pastore davanti ad altri due compaesani, nobili del paese che, si dice, lo avevano aizzato. L’altro, accecato dall’ira e dall’umiliazione, estrasse un pugnale e, in un solo, terribile gesto, glielo conficcò nel petto. Antonio Salvatore cadde a terra senza un grido. Il suo corpo, imponente e forte, divenne improvvisamente fragile e inerme.

Quando la notizia raggiunse donna Peppa, un urlo squarciò il silenzio del paese. Si dice che corse subito fino al luogo del delitto, che abbracciò il corpo del figlio e non volle più lasciarlo andare. Si racconta anche che, in preda alla follia del dolore, avvicinò le labbra alla ferita del figlio e ne succhiò il sangue, come per voler trattenere in sé la vita che stava svanendo.

E così, di madre in figlio, di generazione in generazione, a Scandale rimase vivo quel detto:

«Chi vò murìri cuami u fijjiu i donna Peppa»,

non come semplice malaugurio, ma come monito e ricordo di una tragedia che nessuna madre dovrebbe mai vivere.